1.20 — Hug dulce nomen

Hug dulce nomen
PLANCTUS HUGONIS ABBATIS

(ed. F. Stella - S. Barrett)


Pianto per Ugo abate di Saint-Quentin a Charroux e di Saint-Bertin, figlio illegittimo di Carlo Magno e di una concubina (Anstrude, figlia del duca di Baviera) e fratello di Drogone (Einhardus, Vita Caroli, 18 e Vita Hugonis BHL 4032a, fine IX sec.), nato fra 802 e 806 e morto il 14 giugno 844 nella battaglia intorno a Tolosa fra le truppe legate a Pipino II e quelle di Carlo il Calvo, a fianco del quale militava, ucciso in un agguato nell'Angoumois. Gli è stata dedicata una Vita Hugonis pubblicata da J. Van der Straeten in «Analecta Bollandiana», 87 (1969), pp. 215-60, che sovrappone il personaggio con quello di Ugo vescovo di Rouen, di un secolo anteriore (dal 722: BHL 4032).
Il testo sembra rimpiangere l'audacia dell'intervento di Ugo, che osò Karolum adire (andare 'da' Carlo, non 'contro' Carlo) pur avendolo già nominato re il padre Ludovico, ma esprime anche il dolore per una pena sproporzionata rispetto alla colpa, con una sorta di prudente ambiguità che è stata osservata dagli studiosi e che forse implica la continuità del conflitto1. Secondo la tradizione dei Planctus di guerra, si fa leva sull'elemento patetico del cadavere giacente nella polvere, sulla memoria della generosità del defunto (che diventa una specie di ritornello), sulla visualizzazione delle esequie (il bel corpo esposto in giro dinanzi a tutti) mentre un elemento di novità è il discorso diretto di re Pipino, e in particolare la disponibilità a versare cento talenti pur di veder risorgere l'amico. Spicca la strofa dedicata a Charroux, scritto qui con la grafia vernacolare e germanizzante Karroff, luogo dove Ugo era stato monaco e sacerdote e dove aveva chiesto di essere sepolto. Sul piano letterario è interessante la seconda persona della strofa 7 circumferebas, che si può riferire a Pipino come portatore del feretro o al defunto come se andasse in giro con le proprie esequie, a meno di non intenderlo come attivo per passivo, con abuso morfologico troppo forte.
Il ritmo è stato pubblicato da Peter Stotz in Sonderformen, pp. 374-48. Prima che da Stotz, al quale si rimanda per una bibliografia accurata, la poesia era stata pubblicata dall'Abbé Lebeuf, Recueil I, pp. 165-8, 349; da M. Bouquet, Recueil, vol. 7, pp. 304-5; da Du Méril, Poésies antérieures, pp. 251-3; da de Coussemaker, Histoire de l'harmonie, pp. 86-7e 92-3 con le tavole musicali; da Psaumot in Maltebrun, Annales des voyages, 13 (1811), pp. 209-12 e infine da Ernst Dümmler in MGH Poetae II, p. 139 (con rimando nel vol. 4, p. 607, rhythm. 73) e in base a questo riprodotto e tradotto in italiano da U. Sesini, Poesia latina p. 177 e Vecchi, Poesia, pp. 60-3. Rispetto a Dümmler, Stotz si attiene più fedelmente al manoscritto, sia nella fonetica sia nella scelta di non riprodurre il ritornello degli ultimi due versi per limitarsi a lasciare l'indicazione del codice ut supra.

Costituzione del testo
Il testo è tràdito dal solo Paris BNF lat. 1154, ff. 133rb-134ra.
L'unico problema, a parte l'interpretazione di soncius (per cui vedi apparato), è dato dal v. 8, 2, dove te perpetrasse tràdito dal codice presuppone un verbum dicendi o sentiendi che manca, oppure va inteso come infinito narrativo con valore passato. La correzione proposta già da Du Méril è poi accettata da tutti gli editori. A 4, 2 ho ripristinato la correzione vidisset (dove il ms. ha vidissed, accettato da Stotz) per uniformità con l'uso del testo medesimo, mentre la sonorizzazione fa parte del tipo di errori frequenti nel codice, come si può ricavare da una ricerca in questo Corpus.

Versificazione
Dümmler descrive la struttura dei versi di questo planctus come strofe di 3 trimetri giambici seguiti da un verso composto da un dattilo e uno spondeo, e Norberg, Introduction pp. 134 sg., osserva che aveva ragione Meyer (Gesammelte Abhandlungen I p. 212) a classificare il testo fra le poesie ritmiche: se si analizza ad es. la terza strofa, si verifica che il secondo verso segue questo schema (_ _ ˘ ˘ ˘ || ˘ ˘ _ ˘ ˘ ˘ _). Esaminando però le singole sedi metriche (le sillabe) sul piano delle quantità nota da una parte che il poeta ha tentato di scrivere versi quantitativi del tipo (_ _ ˘ ˘ _ X || _ ˘ _ X _ ˘ X), dall'altra che il trattamento delle prime sillabe di parole come ubi, tua, fuerant - che il poeta non poteva non conoscere - si contrappone a quest'ipotesi. Ne deduce che siamo in presenza di «concessions faites à la poésie rythmique, modèle du poète quant à la forme de la strophe» (p. 135).
Stotz inserisce il testo nella raccolta delle liriche in strofe pseudosaffiche: 3x (5p-7pp, prevalentemente trimetri giambici), più adonio. E rimarca, in aggiunta a Norberg, che in 5, 1 immo va misurato come trocheo, e dunque nella terza sillaba si riscontra una irregolarità. Così in prodesse la prima sillaba potrebbe essere breve, come in certa poesia metrica meno curata (Carm. de Tim. 145, Heriger, Vita Ursmari 1, 26, 126, 769), e in questo caso ben tre versi sarebbero irregolari. Non è chiaro perché la vocale dovrebbe essere breve se per natura è lunga e se il verso in quella sede richiede una lunga. Incostante è, secondo i rilievi di Stotz, anche la quantità della 9a sillaba: 15 volte lunga, 9 volte breve (ma in questo caso la sillaba può essere ancipite). Completa poi il conteggio delle quantità della 10a sede individuando, oltre ai casi registrati da Norberg, i versi 3, 3 (7, 3 e 8, 3) cuique (con dieresi) e 4, 3 medio. Si registra cioè che l'intenzione di costruire versi metrici è superata qui dalla norma di chiudere il verso con una clausola proparossitona, cioè con una parola almeno trisillaba, e dalla tendenza – ammessa anche nel dimetro giambico e diffusa negli inni - a iniziare con una lunga (tranne due casi). Gli adonii sono invece metrici. Stotz nota anche la tendenza all'incipit monosillabico.

Sul piano linguistico, che rivela un autore in possesso di una padronanza relativamente matura del latino, si possono notare l‘oscillazione delle forme del nome Karolus ora con sincope della a (1,2) ora senza (2, 1), che dimostra la forza con cui era sentita la pulsazione ritmica e melodica; il complemento di stato in luogo con de a 6, 2; il congiuntivo per indicativo di 8, 2 perpetrasses, e nello stesso verso l'arcaismo fores, peraltro comune nella poesia metrica carolingia. La latinizzazione Karrouf (da un Carofo attestato in epoca merovingia, Karrofum nel 789), è spiegabile secondo il percorso Carrofum > *Carrofos > Charroux: palatalizzazione oitanica Ca- > Cha- (cfr. cantare > chanter, carru > char, ecc.); caduta di -f- intervocalica (cfr. *refusare > rëuser, ruser). L'etimo lo farebbe derivare da *quadruvium, o più probabilmente come un composto di due basi celtiche: Karrow < kaer «enceinte» (cioè «luogo fortificato e abitato», semanticamente parallelo al ted. Zaun, ingl. town) + row 'chêne'>«chêne».2

L'intertesto conferma perfino in procedimenti stilistici come il raddoppio sinonimico (7, 1 O quam venustam quamque pulcram speciem) i riferimenti a Paolino d'Aquileia evidenziati dalla formula del primo verso, e nel confronto fra fonti e fortuna dimostra la capacità di servirsi di formulario poetico topico e di qualche possibile lettura classica.


1 Stotz Sonderformen p. 377, che a sua volta cita Becker Literaturgeschichte pp. 202-3 e Du Méril, Poésies anterieures p. 252 n. 1)
2 Devo queste precisazioni alla cortesia di Barbara Spaggiari, che ringrazio.